Premi e punizioni per relazionarci ed educare? Sfatiamo (e confermiamo) dei miti.

Premi e punizioni per relazionarci ed educare? Sfatiamo (e confermiamo) dei miti.

Il 25 settembre 2022 si è tenuto l’incontro, organizzato dalla sezione regionale del Lazio del CICAP in collaborazione con Albero Bianco, sui miti da sfatare rispetto al sistema educativo basato su premi e punizioni e sulla considerazione di altri metodi più efficienti e utili alla crescita.

Un settore dello scibile umano nel quale i miti la fanno da padrone purtroppo, è quello della psicologia, soprattutto quella sociale. Nell’ambito delle relazioni umane – che siano familiari, di coppia, di lavoro o addirittura con se stessi – ne esistono di tali, così diffusi e duri a morire, che tutta la nostra società ne è impregnata e ammorbata.

Uno di questi miti, è costituito dalla pratica educativa e relazionale del sistema basato sui premi e le punizioni: obbligare o incentivare una persona a fare, o non fare, una determinata azione sotto minaccia di una punizione o tramite la seduzione esercitata da un premio. Il mito non è tanto questa pratica in se per se, che pure ha la sua capacità di funzionamento, quanto le seguenti convinzioni legate ad essa:

  1. non c’è altro modo per educare/relazionarsi con l’altro;
  2. il sistema premi-punizioni è il più efficace e il più rapido;
  3. se non si puniscono i figli, si rischia di viziarli;
  4. il genitore deve imporre il suo volere perché i figli non sono capaci di autodisciplinarsi.

Vediamo di fare chiarezza sfatando questi e altri miti.

Premi e punizioni? Tutto deriva dal Comportamentismo.

Avete mai pensato a cosa assomiglia il metodo basato su premi e punizioni? E’ stato studiato dal c.d. Comportamentismo, teoria psicologica della prima metà del secolo scorso operata da autori quali Watson, Skinner, Thorndike, Pavlov e altri.

Senza entrare troppo nel dettaglio, operazione che esulerebbe gli scopi di questo scritto, possiamo dire che il Comportamentismo cerca di descrivere l’uomo come la sola somma dei suoi comportamenti osservabili. L’introspezione del mondo interiore umano (la psicoanalisi di Freud per intenderci), era vista con molto sospetto in quanto, questi studiosi, ritenevano che solo l’osservazione del comportamento manifesto potesse assumere carattere di valenza scientifica.

L’unica cosa che contava, era la relazione tra stimolo ambientale e risposta comportamentale dell’individuo. Ciò si basava anche sul processo di condizionamento come meccanismo di apprendimento. Famoso è l’esperimento con i cani di Pavlov i quali riuscirono ad associare a uno stimolo ambientale (il suono di un campanello), la somministrazione di cibo, evento che provocava un aumento della salivazione negli animali.

Gli stessi cani, dopo diverso tempo di apprendimento, mostravano il riflesso della salivazione al solo suono del campanello, anche se il cibo non veniva più somministrato. Questo processo venne definito “condizionamento classico”. Skinner, in seguito, estendendo gli esperimenti, teorizzò il “condizionamento operante”, osservando che la frequenza di messa in atto di un comportamento, varia in funzione dei premi e punizioni a esso associati (Fig. 1).

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Fig.1: Nella gabbia di Skinner, il topo può vedere due pulsanti: uno trasmette una scossa elettrica, l’altro permette di ottenere del cibo. L’animale esplora la gabbia, per caso preme il pulsante che dà la scossa e poi quello che gli fornisce il cibo. Dopo vari tentativi, capisce quale pulsante va premuto a suo favore. Si parla di “condizionamento operante”.

Comportamentismo? Ma non è come l’ammaestramento?

Se a qualcuno fosse venuta in mente questa analogia, non potremmo certo dire che sia in errore. In effetti, quello dei premi e punizioni, è il modo in cui, semplificando molto, si riescono ad ammaestrare gli animali: si rinforza, o si scoraggia, un comportamento, tramite un premio o una punizione; o viceversa.

Ma questo metodo funziona con l’uomo? Certo che funziona! Se il nostro intento è quello di costringere o incentivare una persona ad assumere o meno un dato comportamento, probabilmente avremo successo. Vedremo infatti che ci sono solo dei miti da sfatare attorno a questo modo di relazionarsi ed educare ma anche delle verità da confermare. Non dimentichiamoci che un ricercatore che abbia a cuore la verità, deve essere il più obiettivo possibile!

Altresì, ci sono anche diversi “però” che andremo ad osservare.

Miti da confermare.

1) Il sistema di premi/punizioni è il metodo più diffuso e in uso da più tempo nella società: purtroppo è vero. Nella nostra società (ci riferiamo almeno a quella occidentale), si sono avute molte evoluzioni sociali nel corso della storia ma non c’è mai stata una vera e propria inversione di tendenza nell’uso di questo approccio. Ciò ha permesso ai vari difetti che esso porta con sé, di perpetuarsi nel tempo.

2)  Il sistema di premi/punizioni è il metodo più veloce per ottenere qualcosa: si. E’ vero che è il metodo più immediato nel breve termine, questo è fuor di dubbio, tuttavia la sua valenza è limitata nel tempo (vedremo perché). Se vogliamo costringere qualcuno a fare qualcosa, probabilmente otterremo, in tempi brevi, quello che vogliamo. E in una società come quella nostra, immersa nel vortice consumistico non solo delle cose ma anche dei rapporti umani, la velocità e l’immediatezza la fanno da padrone.

Il prezzo da pagare però sarà dissimulato e “spalmato” nel corso del tempo; il vantaggio di velocità che avremo all’inizio, verrà perso in futuro tramite determinate dinamiche che analizzeremo quando sfateremo i miti.

3) il sistema di premi/punizioni è il metodo più semplice: vero. Senza dubbio è il metodo più immediato da porre in essere. Non richiede studi o riflessioni, basta seguire i propri impulsi e gli esempi che il mondo sociale che ci circonda ci fornisce (famiglia, scuola, lavoro), ed ecco fatto. Non serve mettere in discussione niente, pensare più di tanto o farsi troppi problemi. Eppure anche questo mito ha un prezzo da pagare.

Una amara considerazione è d’uopo: è molto curioso infatti come riusciamo a ben comprendere che per cucinare una buona pietanza serve tempo, pratica e addirittura, in alcuni casi, un certo studio, eppure, per quanto riguarda l’educazione dei nostri figli o il relazionarci con l’altro, pensiamo che tutto debba avvenire in automatico.

Spesso impieghiamo più perizia nell’ottimizzare la nostra auto, il nostro computer o nel compilare il modulo delle tasse, piuttosto che solo ipotizzare che possa esserci un modo più efficiente di connettersi col prossimo.

4) il sistema di premi/punizioni permette di avere le persone sotto controllo: questo è molto vero ma è anche uno dei peggiori difetti di questo sistema; le persone infatti crescono e si sviluppano in modo sano solo attraverso relazioni basate sulla libertà, la fiducia reciproca e il poter essere considerate come soggetti e non come oggetti. Riusciremo quindi ad avere il controllo sugli altri? Probabilmente sì, ma non staremo, al tempo stesso, gettando le basi per una sana, costruttiva e sincera relazione. 

Miti da sfatare.

1) Il sistema premi/punizioni è un metodo efficiente per educare e relazionarsi: falso. Come abbiamo visto, tale approccio deriva direttamente dal Comportamentismo e in particolare da quella parte molto simile all’addestramento/ammaestramento degli animali. Il “solo” e “piccolo” problema, è che l’uomo è un tantino più complesso di un animale.

Gli approcci umanistici-esistenziali, descrivono l’uomo come un essere formato da una sfera biologica (il soma, il corpo), una sfera psichica (il nostro mondo interiore, il nostro inconscio, la nostra coscienza, il nostro Io) e una sfera spirituale o esistenziale[1]. Premettendo che in questa sede non faremo riferimento alla spiritualità religiosa, con questi ultimi due termini indicheremo quella parte dell’uomo capace di raggiungere i massimi livelli di sviluppo interiori, di amore per se stesso e per gli altri, di andare oltre il principio del piacere al quale deve rispondere la psiche e di realizzarsi pienamente.

Ora, fatte queste premesse, pare ovvio una cosa: che il sistema dei premi e punizioni non tiene conto dell’uomo inteso olisticamente ma lo frammenta, lo divide, considerandone solo la parte più primitiva, facendo leva sui suoi bisogni primari e sulle emozioni come la paura e il senso di colpa.

In parole povere, il sistema di premi e punizioni non permette una interazione profonda con l’altro che è solo sedotto, o costretto, a fare o non fare una determinata cosa. Ma cosa vuole veramente l’altro? Cosa prova? Perché c’è bisogno di uno stimolo esterno per fargli fare o non fare certe cose? Lo conosciamo veramente?

Questo approccio, in ultima analisi, non tiene conto di tutto ciò e porta, chi lo adotta, a esercitare un potere che è più coercitivo che collaborativo (vedremo in seguito la differenza).

In parole ancora più povere, l’altro individuo non è visto per ciò che è ma solo per ciò che deve/non deve fare.

Sorge ora una domanda pertinente: come può un individuo relazionarsi in modo sano a un altro se questo non viene considerato come essere umano nella sua interezza? Pensiamoci bene: come ci siamo sentiti quando ci hanno imposto di fare qualcosa che non ci apparteneva senza renderci partecipi, tra l’altro, della decisione di doverla fare? Senza che qualcuno, cioè, condividesse con noi la possibilità di pensare a una soluzione alternativa? Oppure come ci siamo sentiti quando ci siamo accorti che l’adempiere a quel compito, non soddisfaceva un nostro desiderio ma quello della persona che ce lo stava imponendo?

Certamente queste non sono le basi che aumentano la possibilità di instaurare una relazione soddisfacente tra due esseri umani. Tra l’altro, vengono a mancare due elementi fondamentali alla base di un relazione umana sana: la comunicazione e la fiducia. Quando noi (o chi per noi: può essere il datore di lavoro, il nostro partner, lo Stato, il professore…) imponiamo il rispetto delle regole pena una punizione, stiamo comunicando all’altro che non solo non ci interessa cosa egli pensa in quel momento, ma anche che non è in grado di entrare in relazione con noi per trovare una soluzione alternativa che soddisfi i bisogni di tutti.

Si veicola dunque, una comunicazione accessoria posta sotto quella principale, altresì detta “meta-comunicazione[2]: di fatto stiamo dicendo all’altro che non è capace, che non ci fidiamo di lui, che non ci interessano i suoi bisogni e che noi, avendo più potere su di lui, pretendiamo che egli ci obbedisca.

Come si può dunque instaurare una relazione sana se chi impone le regole non mostra sensibilità per la nostra persona e per i nostri bisogni? Conseguentemente, questo non è certo il clima ideale per instaurare un rapporto di reciproca fiducia.

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Fig.2: Dinamiche psicologiche, tra cui una forte dose nostalgica, contribuiscono ad alimentare il mito che metodi educativi corporali siano efficienti nell’educazione e nella formazione di una personalità sana dell’individuo.

2) Il sistema premi/punizioni fa comprendere bene alla gente che le regole sono importanti: falso. Se il sistema dei premi e punizioni può condizionare l’individuo fino all’osso, rendendolo talmente pauroso e accondiscendente da somigliare a un cane bastonato, non è raro invece trovare persone che anzi reagiscono -e in molti casi non sempre in modo positivo- a questa pratica educativa. Parlando di adulti che ricordano e che rivivono, magari nell’ambito del lavoro, la pratica del sistema premi/punizioni, le emozioni e i sentimenti che più facilmente emergono sono rabbia, senso di svalutazione, di non accettazione, risentimento e tendenza a eludere le regole quando se ne presenta l’occasione[3].

Se da una parte queste persone, alla fine della fiera, riescono a rispettare e a conformarsi alle regole della società, dall’altra conservano dentro di sé una pericolosa forma mentis: le regole si rispettano perché c’è qualcuno che altrimenti ci scaglia contro una punizione. E questo modo di rapportarci, lo esercitiamo noi stessi quando, a nostra volta, non lasciamo agli altri libertà di azione perché tanto se ne approfitteranno e ci prevaricheranno.

Il sistema premi/punizioni tende quindi a creare individui risentiti che a loro volta proiettano sul prossimo l’intenzione di violare le regole appena se ne presenti l’occasione. E questo non fa che, preventivamente, stimolare l’imposizione di nuove e stringenti regole da far rispettare con punizioni sempre più severe. E il circolo vizioso di ripete e si rinforza.

Purtroppo il “carattere sociale”[4] della nostra società, si sposa bene con questo tipo di sistema che non tende a creare persone libere e consapevoli delle proprie capacità ma che le prepara a essere quei cittadini alienati e conformati richiesti dalla nostra cultura.

Ma tutta questa dinamica ha un grande prezzo per l’individuo e conseguentemente per la società stessa.

3) il sistema di premi/punizioni aiuta a fortificare la personalità dell’individuo: falso. É tutto l’opposto. Come abbiamo visto, la personalità di un individuo allevato con questo sistema, ne può risentire fortemente.

Abbiamo già parlato della metacomunicazione insita nel metodo premi/punizioni, ma c’è di più; se una persona è sedotta da un premio a fare o non fare una cosa, o obbligata a farla o non farla pena una punizione, una cosa sarà certa: quell’individuo si muoverà in un senso o nell’altro spinto da una motivazione esterna (conquistare la ricompensa o evitare la punizione). Questa viene definita una motivazione estrinseca. Alcuni professionisti, anche attualmente, negano che la motivazione, intesa come forza motrice di una persona, possa addirittura esistere, abbracciando così l’approccio comportamentista della prima ora. 

Un’altra domanda sorge spontanea: ma se l’individuo si abitua a muoversi quasi esclusivamente per una motivazione estrinseca, come potrà essere capace di muoversi per una motivazione intrinseca? Sarà capace cioè di discernere cosa è veramente importante per lui? Avrà la forza e la sicurezza di imporsi per difendere le proprie posizioni di fronte a un ambiente che non lo riconosce? Si arriverà dunque a una vera forza della personalità, oppure l’unica cosa che lo sosterrà sarà la rabbia e l’aggressività che eserciterà verso il proprio simile come reazione alla paura di essere nuovamente ignorato? Sarà in grado di muoversi autonomamente per qualcosa che per lui è importante o avrà sempre bisogno di qualcuno esterno che gli sottoporrà ora la carota, ora il bastone?

Un esempio potrà illuminare il concetto: un nonno che dà 50 euro al nipote che ha superato brillantemente il compito in classe; lo studente si abituerà a studiare per intascare la somma di denaro (motivazione estrinseca) oppure si impegnerà perché ha profondamente compreso l’importanza dello studio (motivazione intrinseca)? Senza contare poi che sarebbe interessante osservare, a distanza di anni, quanto delle nozioni studiate siano rimaste impresse nel ragazzo a seconda dei due tipi di approccio allo studio…

4) il sistema premi/punizioni fa risparmiare tempo: questa espressione è collegata al mito che invece abbiamo confermato: è vero, questo sistema fa risparmiare tempo nel breve termine ma nel lungo termine si rivela una trappola. Vediamo perché.

Nel momento in cui io impongo a un mio simile di fare una cosa pena una punizione (o un incentivo), devo poi esercitare una continua forma di controllo affinché quella persona svolga il compito che le ho prescritto. E non solo devo operare un controllo finale, ma spesso anche un controllo durante la fase di messa in opera. Questo leva parecchio tempo ed energia, soprattutto se la persona che deve eseguire il compito lo troverà inutile, non in linea coi suoi valori, sarà svogliato oppure troverà ingiusta la punizione o non adeguato l’incentivo.

Questa dinamica appare comunemente soprattutto nel mondo del lavoro dove sono presenti i c.d. “premi produzione”, ossia degli incentivi per chi produce di più. A conti fatti, proprio perché l’individuo non sente una sua motivazione intrinseca nello svolgere il compito che gli è stato imposto, tenderà a fuggire da esso. Oppure vi si dedicherà superficialmente o comunque non con la stessa dedizione che avrebbe se sentisse, in modo autentico e profondo, che quel dovere è davvero ciò che è importante per lui e che lo avrebbe fatto anche senza incentivo.

Chi impone premi e punizioni, deve poi spendere molto tempo ed energia per assumere il ruolo di giudice e Cerbero di guardia.

5) Il sistema premi/punizioni non ha conseguenze per chi lo esercita e per chi lo subisce: falso. Abbiamo affermato che il sistema di premi/punizioni, non lascia spazio per entrare in un rapporto autentico e profondo con l’altra persona. Ma c’è di più: esso ha delle conseguenze, a lungo termine, che non sono proprio banali. Queste si declinano in un senso di colpa, più o meno sentito, in chi fa uso corrente di questo approccio. Tale senso di colpa, deve essere costantemente tenuto a bada tramite razionalizzazioni più o meno elaborate del tipo “eh, ma le regole vanno rispettate”, oppure “bisogna fare così sennò i figli (o i dipendenti di un’azienda) ti mettono i piedi in testa” e così via.

Ma conseguenze si hanno anche in chi questo sistema lo subisce, visto che non si vede accettato per le ciò che è ma solo per quanto si sottomette al sistema. Se si pensa al rapporto genitori-figli, questa dinamica assume una colorazione particolarmente drammatica: come si può sentire un figlio cresciuto in un ambiente dove viene amato e accettato solo se si conforma a condizioni imposte dall’esterno pena una punizione? Quante volte abbiamo sentito espressioni del tipo “se non fai questo e quest’altro allora non sei un bravo bambino” oppure “se non ti comporti così e cosà, allora non andrai a quell’evento che ti piace tanto”, oppure, nel mondo del lavoro, “se lei non si adatta a fare le cose in questo modo, allora verrà licenziato o trasferito” etc etc.

Queste espressioni, esercitano una forza coercitiva sull’altro che si trova costretto a cedere per cause di forza maggiore. Ma cosa rimane nel proprio essere in tutta questa dinamica? Rabbia, risentimento, senso di svalutazione, frustrazione, sete di vendetta e di rivalsa su chi ci ha ignorato, umiliato e non ascoltato. Niente di buono insomma.

6) Il sistema di premi/punizioni è l’unico che si può adottare per relazionarsi con l’altro e per educare: falso. Ci sono delle alternative come vedremo nel paragrafo dedicato.

7) Il sistema di premi/punizioni permette di avere il rispetto da parte dei figli: falso. La maggior parte delle persone confonde “rispetto” con “timore”. Quanta paura abbiamo che, perdendo il timore che i figli (o dipendenti) hanno nei nostri confronti, essi possano opporsi al nostro controllo sopraffacendoci? Alla base di questo mito, c’è la dimenticanza che il rispetto dell’altro va conquistato, non è dato per diritto di nascita o di autorità, né tantomeno lo si acquisisce per il solo fatto di avere il potere di elargire premi o imporre punizioni. 

Il potere.

Il potere è alla base del sistema premi/punizioni. C’è anche qui da fare un distinguo però: che tipo di potere? Non tutti i modi di esercitare il potere sono sani come non tutti sono negativi. Nell’ambito del sistema premi/punizioni, c’è da dire che sicuramente prevale il c.d. “potere su…” piuttosto che il “potere di…/potere con…”.

Con il “potere su…” utilizzo un premio o una punizione per incentivare od obbligare l’altro a fare o non fare una certa cosa. Ho quindi un potere sull’altro. Pensiamo a un datore di lavoro: può imporre certe regole pena il licenziamento. Ma questo avviene anche nelle famiglie: il genitore ha il potere di impedire che il figlio parta per la vacanza estiva se si comporta in modo diverso da come dovrebbe comportarsi. E il genitore ha il potere di farlo dato che il figlio dipende interamente da lui, sia affettivamente, sia economicamente.

Il “potere su…” è qualcosa che può dare anche un senso di narcisistico e rassicurante controllo sull’altro nonché, nei casi peggiori, anche di sadica soddisfazione.

Di natura opposta è il “potere di…/potere con…”, ossia il potere di fare qualcosa con l’altro e per l’altro, condividendo le potenzialità e la ricerca di soluzioni atte a soddisfare i bisogni di tutti. In questo tipo di potere, un genitore o un datore di lavoro, non impongono la loro soluzione pena punizioni o tramite la seduzione esercitata da un premio, ma ascoltano l’altra persona dando un valore alla comunicazione interpersonale e permettendo di attiva partecipazione da parte di tutti alla soluzione del problema. Lo vedremo meglio nell’alternativa al sistema del sistema premi/punizioni.

Alternative al sistema premi/punizioni.

La Comunicazione Non Violenta (CNV) di Rosenberg.

Scrive M. Rosenberg, l’ideatore della Comunicazione Non Violenta (CNV) nonché mediatore di diversi conflitti tra culture diverse: “Le persone riescono facilmente a vedere il limite di qualunque tipo di punizione semplicemente se si pongono due domande: <Che cosa voglio che il bambino faccia in modo diverso?> Se ci poniamo soltanto questa domanda, possiamo pensare che la punizione ogni tanto funzioni. […] Tuttavia quando ci poniamo la seconda domanda, i genitori si accorgono immediatamente che la punizione non funziona mai: <Quali vogliamo che siano i motivi per cui il bambino si comporti nel modo che desideriamo?>”

Caratteristico della CNV, è la volontà di entrare in connessione autentica non solo con i nostri bisogni ma anche con quelli dell’altro. Consapevolezza e “potere di…” sono tipici di questo approccio.

Nella CNV non impongo niente e non costringo l’altro con una punizione, né  lo seduco con un premio ma piuttosto, esprimo i miei sentimenti quando osservo un comportamento dell’altro che non mi piace. Dopodiché esprimo i miei bisogni e faccio la richiesta all’altro di essere disposto in qualche modo a soddisfarli. Quest’ultimo punto è un altro punto di forte differenza col sistema dei premi/punizioni: la differenza tra pretesa e richiesta. Una richiesta prevede che l’altro possa dire “no” o che possa fornire una alternativa alla nostra soluzione che non sarà così imposta unilateralmente. Nel caso della pretesa invece, non si lascia questa libertà: se l’individuo non fa quello che pretendiamo, scatta la punizione.

Nel suo manuale sulla CNV, M. Rosenberg riassume così i passi per la soluzione di un conflitto[5]:

1) Esprimere i propri bisogni;

2) Cerchiamo di capire i veri bisogni dell’altro a prescindere da come li esprime;

3) Verifichiamo di aver riconosciuto accuratamente i bisogni dell’altra persona;

4) Diamo empatia per far sì che entrambi possiamo ascoltare accuratamente i bisogni l’uno dell’altro;

5) Una volta chiariti i bisogni di entrambe le parti nella situazione, proponiamo strategie per risolvere il conflitto, formulandole in un linguaggio d’azione positivo ed evitando l’uso di parole che implicano che una delle parti è in torto.

Nella CNV si nota uno spiccato spostamento dal comune comportamento diffuso nella nostra società: non mi impongo all’altro ma cerco di ascoltarmi e ascoltarlo per giungere a una soluzione che possa tenere in considerazione i bisogni di entrambi.

La CNV si può usare con profitto anche in assenza di conflitti; di seguito ne elenchiamo i 4 passi fondamentali, volutamente riassunti all’estremo per motivi di spazio[6]:

1) Osservazione: esprimiamo ciò che osserviamo senza esprimere giudizi di valore;

2) Sentimenti: esprimiamo come ci sentiamo noi in seguito a quella cosa che osserviamo;

3) Bisogni: esprimiamo i nostri bisogni, valori, desideri;

4) Richieste: richiediamo all’altro le azioni concrete che desideriamo.

Il Metodo III di Gordon.

Di pari passo con la CNV di M Rosenberg, va il c.d. “Metodo III” di Thomas Gordon, autore di numerosi saggi sulla comunicazione tra genitori e figli, docenti e discenti, leader e dipendenti. Secondo questo autore, la lotta per il potere alimentata dal sistema premi/punizioni crea due possibili scenari (rimaniamo nell’esempio dei rapporti genitori-figli): uno dove il genitore vince e il figlio perde (Metodo I) e un altro dove è il figlio a vincere e il genitore a perdere (Metodo II). In entrambi i casi avremo una parte che conserverà la frustrazione di aver perso la lotta mentre la parte vincente probabilmente, svilupperà un senso di colpa che dovrà tenere a bada con diverse razionalizzazioni. Insomma, nulla di buono, perché in entrambi i casi nessuno assumerà consapevolezza né dei propri bisogni (a livello profondo) né soprattutto di quelli dell’altro e si instaurerà quella comunicazione menomata che abbiamo illustrato sopra.

Ma c’è un terzo possibile scenario: quello senza perdenti che Gordon riassume nel seguente estratto dal suo saggio: “I bisogni del genitore e quelli del figlio entrano in collisione. Il genitore chiede al figlio di partecipare alla ricerca comune di una soluzione accettabile. Chiunque dei due può suggerire possibili soluzioni che vengono poi valutate e analizzate in modo critico da entrambi. Alla fine si approda insieme a una soluzione definita accettabile per entrambi. Nessuno è costretto a svendersi una volta che la soluzione è stata scelta perché ambedue l’hanno accettata. Nessun potere è chiamato in causa per costringere l’altro ad arrendersi perché nessuno si oppone alla decisione.”[7]

Il ribaltamento dell’approccio rispetto al sistema di premi/punizioni è lampante: i figli sono maggiormente motivati ad attuare la soluzione trovata perché hanno partecipato attivamente a idearla e soprattutto soddisfa anche i loro bisogni e non solo quelli del genitore. E, come sottolinea Gordon, questo principio è stato ripetutamente sperimentato anche nel mondo del lavoro dove si è osservato che quando i dipendenti sono coinvolti direttamente nelle decisioni, si sentono più attori attivi piuttosto che semplici spettatori passivi, sperimentano un rinnovato spirito di gruppo e di coesione e aumenta la capacità di rispettare ed eseguire le direttive. Analogamente, rendere partecipe il figlio aumenta la probabilità che segua la soluzione scelta. Questo non solo fa risparmiare energia e tempo che prima servivano per la fase del controllo, ma contribuisce a migliorare la comunicazione tra le persone perché rende le persone “soggetti” e non semplici oggetti da controllare tramite premi o punizioni. Aumenta la connessione, le persone si conoscono, ognuno può trovare interesse e vantaggio aiutandosi a vicenda e condividendo competenze, abilità, idee e creatività.

Aumenta anche la fiducia degli altri nei nostri confronti quando ci mostriamo interessati a trovare una soluzione al problema piuttosto che a obbligare gli altri a eseguire pedissequamente una soluzione imposta unilateralmente.

Ma non solo: nel caso di figli in età evolutiva, il Metodo III contribuisce a stimolarne l’autostima, la capacità decisionale, interpersonale e in genere favorisce il pieno sviluppo della personalità nonché l’abilità di entrare in contatto con il proprio mondo interiore.

Per quanto riguarda il potere invece, con il Metodo III si rende inutile anche la corsa al potere sull’altro dato che genitori-figli (ma anche responsabili e dipendenti lavoratori), collaborano per svolgere un compito comune. 

Perché i miti sul sistema basato sui premi/punizioni sono duri a morire?

Le motivazioni alla base del perché il sistema educativo e relazionale basato sui premi/punizioni è ancora così diffuso, sono diverse.

Innanzitutto le alternative qui proposte (la CNV e il Metodo III), richiedono un certo periodo di apprendimento, di sperimentazione, di voglia di mettersi in gioco e di investimento di tempo e pazienza: tutte cose che la persona media della nostra società possiede in minima parte, o meglio, preferisce dedicare ad altro. Questo è alimentato dal fatto che non esiste, fin dalle scuole primarie, un tipo di educazione e sensibilizzazione verso la disciplina psicologica e delle relazioni sociali: uno studente studierà 100 volte (alle elementari, alle medie e alle superiori) qual è la capitale del Belgio, ma mai una volta verrà iniziato a discipline di tipo psicologico che lo porteranno ad assumere consapevolezza e competenza del suo mondo interno in relazione a quello interpersonale.

La società contribuisce dunque a formare individui che hanno una scarsa conoscenza di quanto questi strumenti posso essere utili nelle relazioni sociali: è uno studio basato unicamente sull’intellettualizzazione e sulla memoria tralasciando pericolosamente la parte affettiva, emotiva e sociale.

Ecco perché molti non credono nell’investimento iniziale che le alternative qui proposte richiedono, ammesso che siano conosciute (e non lo sono certo!). Impiegare più tempo all’inizio (rispetto al sistema premi/punizioni), significa raccogliere i frutti in seguito.

Ci sono tuttavia altri impedimenti all’uso delle alternative. Spesso la persona, il genitore per esempio, è fortemente condizionato da modelli comportamentali disfunzionali risalenti all’ambiente primario nel quale è cresciuto, o ancora si sente isolato nel credere in qualcosa di alternativo che nessuno conosce. La paura di sbagliare tutto, può prendere il sopravvento e può attirare le critiche delle persone a noi vicine le quali, in modo negativo, ci influenzeranno per mantenere i vecchi metodi educativi e relazionali.

Eppure la conoscenza umana dovrebbe evolversi a partire dal mettere in dubbio vecchie convinzioni: non mi pare che i metodi tradizionali abbiano portato a una società migliore di quella precedente, almeno sotto il profilo sociale; non sarebbe ormai il caso di provare delle alternative?


Note:

[1] “La consapevolezza, la libertà, la volontà come capacità di decisione, sono frutto di un’altra componente dell’essere umano, che non è né quella biologica né quella psichica, ma quella spirituale. Questa è una terza dimensione. E non è necessario affatto far dipendere dall’esistenza di Dio l’esistenza di questa dimensione nell’uomo. Così come l’uomo è emerso dal mondo animale per capacità sua e non per interventi divini, così l’uomo è capace di trascendere se stesso sviluppando in sé la dimensione spirituale oltre quella psichica”. Antonio Mercurio, Amore e Persona, Costellazione di Arianna, pag. 48.

[2] 2° assioma della comunicazione (Paul Watzlawick): all’interno di ogni comunicazione si possono individuare due livelli: “Ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto e un aspetto di relazione di modo che il secondo classifica il primo ed è quindi metacomunicazione”.

[3] “Se si osservano I figli di genitori che hanno appena risolto un conflitto con il Metodo I [imposizione della forza dal parte del genitore, NdR] si constaterà quasi invariabilmente che le espressioni del loro volto denunciano rancore e risentimento, che rispondono con ostilità o che arrivano persino ad aggredire fisicamente i genitori. Il Metodo I crea le premesse di una relazione destinata a deteriorarsi inesorabilmente. Il risentimento e l’odio subentreranno all’amore e all’affetto”. Thomas Gordon, Genitori Efficaci, edizioni la meridiana, 2014, pag. 88-89.

[4] Erich Fromm, Psicanalisi della società contemporanea, Edizioni di Comunità, 1981, pag. 82.

[5] Marshall Rosenberg, Le parole sono finestre oppure muri, edizioni Esserci, 2018, pag. 201.

[6] Ibidem.

[7] T. Gordon, op.cit., pag. 109.

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